La creatura di Caleb Shomo sta bruciando le tappe e ne siamo stati testimoni anche in sede live nella recente data milanese al Legend Club di Milano. Nel numero di Giugno di Suffer Music Magazine non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione di parlare con Caleb e di farci raccontare tutto sui Beartooth, band di copertina e stella ormai consacrata del firmamento alternative metal mondiale.
Il 2012 può essere visto come il tuo personale anno zero, con la tua “nascita” artistica. Che ricordi hai di quell’annata?
Penso che possa essere definito come lo hai descritto tu. La musica ha sempre ricoperto un ruolo chiave nella mia vita sin dall’adolescenza, la sola cosa che fondamentalmente mi stimolava e incuriosiva. Quando si è teenager si ha una gran voglia di far parte del sistema, avere una band e suonare, poco importa cosa. Poi cresci e penso sia logico per ogni artista cercare una propria strada artistica, che possa portare soddisfazioni ed essere orgogliosi del proprio operato. Il 2012 è stato un anno che tra alti e bassi ha dato il via a un processo evolutivo che oggi mi ha portato a quella serenità che raramente in passato ho vissuto.
Inizialmente però le idee sembravano non essere molto chiare, da una parte questa nuova entità chiamata Beartooth e dall’altra un progetto di musica elettronica che lasciava decisamente perplessi i tuoi fan…
Come dicevo prima, se sei un’artista devi seguire il tuo intuito, le tue idee. Poco importa se esse ti portino lontano dalle tue sicurezze, bisogna provarci, sempre. Non ho mai avuto alcun problema nel dire che amo la musica elettronica e tutt’ora l’ascolto spesso. è qualcosa che ti aiuta a staccare, essendo distante anni luce da ciò che faccio solitamente. Aiuta ad avere una visione della musica diversa, a farti capire che un beat a volte può essere più heavy di un mastodontico riff di chitarra. è tutta una questione di mentalità e di come ci si approccia alla musica. In quel periodo volevo sfogare ogni mia idea, percorrendo strade spesso diametralmente opposte. I Class (questo il nome del suo progetto elettronico – ndr) pur non avendo prodotto più nulla dall’EP del 2013 sono quel tipo di situazione che sei certo, prima o poi tornerà a galla. Questione di tempo, mentalità.
Invece nell’altro caso tutto sembra essere proceduto per il verso giusto. Ti infastidiva in quel periodo vedere il tuo nome accostato spesso e volentieri dai media ancora alla tua precedente band?
Penso sia una cosa abbastanza logica, specie agli inizi. Basta semplicemente non dargli troppa importanza e veicolare il discorso verso il tuo obiettivo. Puoi farlo attraverso comunicati, interviste e live shows. Personalmente credo di esserci riuscito rapidamente.
Arriviamo quindi ad “Aggressive”, ennesimo step all’interno del tuo stadio emotivo o cos’altro?
In questo disco ho voluto fare un riassunto di quanto ho visto e vissuto negli ultimi tempi. Arrivavo da due anni ininterrotti di tour, sentendo l’esigenza di fermarmi a scrivere nuove canzoni. Avevo talmente tante considerazioni in testa che provavo quasi ansia all’idea di non poterle buttare fuori al più presto. Quindi mi sono chiuso in casa con carta e penna costantemente sottomano e ho dato il via a questa ennesima esperienza. La mia vita è molto migliorata ultimamente e questo era un aspetto chiave che volevo evidenziare nei miei testi. Ma al tempo stesso non potevo nascondere la rabbia che ho provato, così pensando a un ipotetico titolo ho pensato che nessuno poteva essere migliore di “Aggressive”. Rabbia, energia e speranza sono le basi di questo disco, decisamente lontane da quel mood dark che contraddistinse “Disgusting”.
Da una parte il lato aggressivo dell’animale, senza schemi, diretto. Dall’altra quello dell’essere umano, più ponderato e “schematico” a volte. Quale dei due rappresenta il Caleb odierno?
Penso entrambi, allo stesso livello. Animale e uomo hanno lo stesso modo di essere aggressivi, specie quando si sentono in pericolo o comunque sia quando nutrono rabbia in corpo. L’animale lo fa soprattutto per proteggere sé e la sua famiglia, l’uomo ha diverse situazioni che lo portano a questo stadio emotivo, ma comunque sia siamo più o meno sugli stessi livelli. Ho sempre prestato molta attenzione alle grafiche dei nostri dischi, così come ai titoli. In questa occasione ho avuto sin dal principio pochi dubbi: raffigurava perfettamente ciò che volevo trasmettere, con quell’immagine e quella parola avevo spiegato l’intero concept.
A proposito, a mio parere la titletrack è il brano più diretto mai scritto dai Beartooth. Ce lo vuoi descrivere?
E’ stata una delle prime canzoni scritte, quella sulla quale ho forse lavorato meno perché avevo ben chiaro cosa volessi da lei. Penso tu abbia ragione, in quanto esprime il concetto Beartooth dalla prima all’ultima nota, ha potenza, un suono compatto e diverse soluzioni all’interno che la rendono dinamica all’ascolto. E’ tra le mie preferite.
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